Corte
Suprema di Cassazione Giurisprudenza Civile e Penale ATTI OSCENI
- ART. 527 COD. PEN. - ESIBIZIONE DI ORGANI GENITALI MASCHILI AD UNA DONNA - DIVERSA
RILEVANZA PENALE IN FUNZIONE DEL CONTESTO SOGGETTIVO IN CUI L'EVENTO E' CONCRETAMENTE
INSERITO. (Cassazione - Sezione Terza Penale - Sent. n. 1765/2000 - Presidente
U. Papadia - Relatore P. Onorato) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO l -
Con sentenza del 10.2.1999, parzialmente riformando quella resa il 2.7.1998 dal
pretore di Sondrio, la corte di appello di Milano ha dichiarato A. G. colpevole
dei seguenti reati: a) artt. 81 cpv. e 635 c.p., per aver ripetutamente
danneggiato le piante di pomodori dell'orto dei coniugi L. R., staccandone i frutti
ancora acerbi; c) artt. 81 cpv. e 635 c.p. per aver ripetutamente danneggiato,
rompendoli, i vasi posti sul terreno antistante l'abitazione dei coniugi L. R.; d)
art. 726 c.p., per aver commesso atti contrari alla pubblica decenza, urinando
e defecando sulla concimaia sita nei pressi della propria abitazione; e)
art. 527 c.p., per aver commesso atti osceni, mostrando ripetutamente il pene
a D. C. A., coniugata L. R. : fatti tutti commessi in Albosaggia sino all'ottobre
1996. Per l'effetto, ritenuta la continuazione tra i reati, la corte
milanese ha condannato l'imputato alla pena di tre mesi e tre giorni di reclusione. 2-
Il G. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi. In particolare
lamenta: 2.l - nullità del decreto di citazione a giudizio, perché
il capo di imputazione conteneva un indicazione cronologica per tutti i fatti
(fino all'ottobre 1996) del tutto generica e tale da impedire un'adeguata difesa
(in particolare, per quanto concerne gli atti osceni - secondo il ricorrente -
non è dato sapere quando iniziarono e quanti furono); 2.2- carenza
di motivazione e violazione dell'art. 192 c.p.p., in relazione al delitto di cui
all'art. 527 c.p., sia perché difetta la motivazione in ordine alla concreta
visibilità ed esposizione al pubblico della concimaia dove sarebbero stati
compiuti gli atti osceni; sia perché non è stato accertato se l'esibizione
dell'organo genitale sia avvenuto per istinto libidinoso oppure per disprezzo
e offesa della signora D. C.; 2.3 - erronea applicazione della norma incriminatrice
in relazione ai reati di danneggiamento, perché mancava la prova della
materialità del danneggiamento e della sua attribuibilità all'imputato; 2.4
- insussistenza del delitto di cui all'art. 527 c.p., giacché l'esibizione
del pene per orinare non può essere considerato atto osceno, se non accompagnata
da gesti o palpamenti atti a esprimere libido. MOTIVI DELLA DECISIONE 3
- Il primo motivo di ricorso (n. 2.1) è infondato. Legittimamente
la corte territoriale ha disatteso l'analoga censura formulata con l'atto di appello,
osservando che il pubblico ministero aveva contestato i reati unificandoli nella
continuazione interna e indicando come data di commissione quella sino alla quale
la condotta si era protratta. Siffatta contestazione doveva ritenersi sufficientemente
chiara e completa, tale comunque da consentire all'imputato l'esercizio del diritto
alla difesa. Tanto ciò è vero che il G. ha potuto dimostrare
di essersi allontanato da casa il 14.8.1996 per andare a falciare l'erba in un
maggengo (anche se poi la corte di merito ha ritenuto la circostanza non decisiva
per escludere il danneggiamento avvenuto quel giorno, evidentemente prima dell'allontanamento
da casa); così come ha potuto dimostrare che alcuni fatti di imbrattamento
risalivano a una data anteriore di oltre 90 giorni alla querela (sicché
la stessa corte lo proscioglieva dal relativo reato, contestatogli sub capo b)
dell'imputazione). 4 - I1 secondo e il quarto motivo del ricorso (nn. 2.2
e 2.4) vanno trattati congiuntamente, perché entrambi relativi al reato
di atti osceni. Al riguardo, il collegio osserva che nessun dubbio può
sussistere sulla circostanza che la concimaia in cui il G. compì gli atti
contestati era concretamente visibile, cioè esposta al pubblico, così
come richiesto dall'art. 527 c.p.. Infatti, i giudici di merito hanno accertato,
con motivazione incensurabile in questa sede, che sebbene parzialmente circondata
da un muro, peraltro di altezza degradante, essa era comunque esposta agli sguardi
di chi si trovava nei pressi. Tuttavia, secondo quanto risulta dalle sentenze
dei giudici di merito, gli atti compiuti dal G. non integravano i requisiti dell'oscenità.
Com'è noto, infatti, atto osceno è quello che offende oggettivamente
il comune sentimento del pudore in materia sessuale, e non quello che offende
la semplice costumatezza, o pubblica decenza, tutelata dall'art. 726 c.p.. Per
integrare il delitto di cui all'art. 527 c.p., quindi, è necessario che
l'agente abbia coscienza e volontà di offendere il pudore sessuale. Nella
fattispecie concreta, il G. usava la concimaia per soddisfare i suoi bisogni fisiologici
(tanto che è stato condannato per la contravvenzione di cui all'art. 726
c.p.); e inoltre, a volte aspettava che la vicina fosse nei pressi per far finta
di orinare e per mostrare ostentatamente i propri genitali (v. sentenza del pretore,
pag. 3, e sentenza di appello, pag. 5). L'esibizione degli organi, però,
non era accompagnata da frasi, palpamenti o gesti sessualmente allusivi, o comunque
da un atteggiamento e un contesto tale da poterla qualificare come espressione
di libidine sessuale, così come richiede la nozione di osceno. Sul punto
entrambi i giudici di merito omettono qualsiasi considerazione, invalidando così
il giudizio di responsabilità. Quella esibizione di genitali, piuttosto,
per il comportamento complessivo dell'imputato, considerato in se stesso e soprattutto
in rapporto alla persona offesa, appariva chiaramente come manifestazione di disprezzo,
ossia come volontà di offendere l'onore o il decoro della vicina di casa.
Per conseguenza, doveva qualificarsi non come atto osceno, ma come ingiuria, atteso
che l'ingiuria può essere non solo verbale, ma anche reale, cioè
compiuta con gesti sconci o altri atti materiali di spregio verso una persona
presente. La giurisprudenza di legittimità, se letta correttamente,
è generalmente conforme a questa impostazione. Per essa infatti l'esibizione
degli organi genitali configura il delitto di atti osceni quando mira al soddisfacimento
della libido (Cass. Sez. III, n. 8959 del 3.1.1997, ud. 3.7.1997, P.M. in proc.
Gallone, rv. 208445); l'esibizione ostentata del pene maschile verso una donna
integra il reato di atti osceni, quando ha per fine il soddisfacimento erotico
dell'agente (Cass. Sez. III, n. 9435 del 7.9.1995, ud. 7.7.1995, Vegetali, rv.
202717); l'esibizione in pubblico degli organi genitali maschili per il soddisfacimento
della propria libido, in quanto offensiva della costumatezza sessuale, integra
gli estremi del delitto di atti osceni (Cass. Sez. III, n; 4900 del 17.5.1985,
ud. 5.3.1985, Catalano, rv. 169276); ogni atto che abbia un contenuto specifico
riferibile alla sfera sessuale (nella specie esibizione in pubblico degli organi
genitali accompagnata da palpamenti e gesti diretti a sottolinearla) integra l'elemento
materiale del delitto di atti osceni (Cass. Sez. III, n. 10898 del 6.12.1984,
ud. 15.6.1984, Cialli, rv. 166988). Non può invece condividersi
quella opinione secondo cui "la esibizione di organi genitali maschili ad
una donna, anche se compiuta al fine di offesa o disprezzo, anziché di
soddisfacimento di impulso sessuale, è per sua natura offensiva del comune
senso del pudore ed integra il delitto di atti osceni" (Cass. Sez. III, n. 2656
del 4.4.1973, ud. 13.11.1972, Di Costantino, rv. 123724). Questa tesi, nella sua
assolutezza, trascura una considerazione elementare di fisiologia umana e di antropologia,
e cioè che alcuni organi dell'apparato genitale genitale maschile
e femminile svolgono anche altre funzioni (in particolare il pene svolge anche
la funzione di eliminare l'urina): sicché non può correttamente
affermarsi, anzitutto sotto un profilo fisiologico e antropologico, che l'esibizione
di organi genitali è "per sua natura" attinente alla sfera sessuale e quindi
offensiva del pudore. A1 contrario, così come esplicitamente o implicitamente
affermato anche dalla giurisprudenza su richiamata, la nudità dei genitali
può assumere un diverso rilievo penale in funzione del contesto oggettivo
e soggettivo in cui è concretamente inserita: così può
configurare un atto osceno, quando esprime, anche psicologicamente, un istinto
sessuale; ma può semplicemente costituire un atto contrario alla pubblica
decenza, quando è mero esercizio della funzione fisiologica dell'urinare;
o addirittura sfugge a qualsiasi rilevanza penale se è inserita in un
contesto pedagogico o didattico (es. durante una lezione di anatomia o di educazione
sessuale) ovvero in particolari contesti settoriali (per es. di tipo naturista
o salutista). 5- E' invece infondata la terza censura (n. 2.3)
relativa ai danneggiamenti, giacché la sentenza impugnata ha motivato
in modo puntuale e logico, comunque non censurabile in sede di legittimità,
sia in ordine alla materialità dei danni subiti dai coniugi L. R. (vasi
rotti, ortaggi danneggiati, pomodori verdi staccati dalle piante, etc.), sia in
ordine alla responsabilità dell'imputato (dovendosi escludere la causa
meteorologica o in genere accidentale, e considerando la circostanza che i danneggiamenti
erano avvenuti al confine tra la proprietà dei querelanti e quella dell'imputato).
6 - In conclusione, la sentenza deve essere annullata limitatamente al
delitto di atti osceni contestato al capo c) dell'imputazione. In seguito alla
corretta e integrale lettura delle sentenze dei giudici di merito, il fatto contestato
e accertato a carico dell'imputato (esibizione del pene in presenza della
signora D. C.) doveva essere giuridicamente qualificato come ingiuria e non come
atto osceno. Poiché il reato di cui all'art. 527 c.p. era il più
grave fra quelli contestati e ritenuti, sicché è stato assunto per
il calcolo della pena base, da aumentare ai fini della continuazione, gli atti
vanno rimessi ad altra sezione della corte milanese, perché provveda a
rideterminare la pena complessiva. PER QUESTI MOTIVI La corte annulla
la sentenza impugnata in ordine al reato di cui all'art. 594 c p., così
qualificato il fatto di cui al capo c) della rubrica, e rinvia ad altra sezione
della corte di appello di Milano per la determinazione della pena. Rigetta
il ricorso nel resto. |