SENTENZE
CORTE DI CASSAZIONE
Sentenza
della Corte di Cassazione 3557/2000 Attraverso la sentenza della
Corte di Cassazione 3557/2000 si consolida a livello giudiziario, la tesi dell'insussistenza
del reato. Emblematica è la motivazione di una sentenza depositata recentemente
dal giudice Diana Brusacà che ha assolto un nudista di 55 anni, originario
di Genova per il quale, invece, il pubblico ministero aveva chiesto la condanna
a 300 mila lire di ammenda: Ecco le motivazioni dell'assoluzione, ancorata all'evoluzione
del comune senso del pudore: "E' un dato acquisito l'esistenza di un'evoluzione
del costume che si traduce nella tolleranza e tollerabilità nei confronti
del nudismo inserito nella più generale pratica del naturismo. L'aumento
del numero di coloro che lo praticano comporta un aumento di chi, pur non praticandolo,
lo ammette o comunque non ne è disturbato o turbato nel proprio senso del
pudore o della riservatezza. Non si può inoltre prescindere da una valutazione
dell'intero contesto in cui il fatto si è svolto, perché ben altro
può essere il disvalore dell'esposizione in una spiaggia di intensa frequentazione,
rispetto all'esposizione in un lido appartato normalmente frequentato da soggetti
amanti il nudismo. La giurisprudenza di merito si è ormai attestata su
univoche posizioni riconoscendo come atti contrari alla pubblica decenza solo
quelli che ledono le regole etico-sociali attinenti al normale riserbo e alla
elementare scostumatezza, sì da produrre disagio, fastidio, riprovazione,
avuto riguardo ai comuni parametri di valutazione riportati allo specifico contesto
e alle particolari modalità del fatto. Appare evidente
che non può considerarsi indecente la nudità integrale di un naturista
in una spiaggia riservata ai nudisti o da essi solitamente frequentata.
Il nudismo integrale, praticato come nel caso del Guvano, perde quel carattere
di offensività del sentimento di decoro e riserbo" Sentenza
della Corte di Cassazione n. 1765/2000 Dalla sentenza della Corte
di Cassazione n. 1765/2000 si rafforza la tesi per cui "l'esibizione
di organi genitali maschili ad una donna, anche se compiuta al fine di offesa
o disprezzo, anziché di soddisfacimento di impulso sessuale, non è
per sua natura offensiva del comune senso del pudore e non può automaticamente
integrare il delitto di atti osceni". Ciò anche in considerazione
della elementare fisiologia umana dove alcuni organi dell'apparato genitale maschile
e femminile svolgono anche altre funzioni (in particolare il pene svolge anche
la funzione di eliminare l'urina). Sicché non può correttamente
affermarsi, anzitutto sotto un profilo fisiologico e antropologico, che l'esibizione
di organi genitali è "per sua natura" attinente alla sfera sessuale
e quindi offensiva del pudore. Al contrario, così come esplicitamente o
implicitamente affermato anche dalla giurisprudenza su richiamata, la nudità
dei genitali può assumere un diverso rilievo penale in funzione del contesto
oggettivo e soggettivo in cui è concretamente inserita: così può
configurare un atto osceno, quando esprime, anche psicologicamente, un istinto
sessuale; ma può semplicemente costituire un atto contrario alla pubblica
decenza, quando è mero esercizio della funzione fisiologica dell'urinare;
o addirittura sfugge a qualsiasi rilevanza penale se è
inserita in un contesto pedagogico o didattico (es. durante una lezione di anatomia
o di educazione sessuale) ovvero in particolari contesti settoriali (per es. di
tipo naturista o salutista).
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