Sui loro tavoli,
invece delle specialità della cucina valdostana e delle consuete bottiglie di
vino, si notano vasetti di pappa reale, confezioni di muessli, tubetti di integratori
vitaminici. Sono i più silenziosi, scorrono con
lo sguardo i loro libretti, fanno le loro valutazioni, si lasciano andare a qualche
battuta. C'è sempre qualche scalatore sulla quarantina o più che, incuriosito,
cerca di strapparli alla loro reticenza, di attaccare discorso, di informarsi
sulle loro mete, un po' per soddisfare la sua curiosità e per riempire le lunghe
ore del dopo pranzo, un po' per rendersi conto di quanto siano cambiate le cose
da quando, a vent'anni, lui e altri come lui guardavano con invidia chi si cimentava
su itinerari di quarto o di quinto grado. E' di uno di questi signori l'esclamazione
che si ode in tutta la sala: "Cristo, il Gran Pilastro Nord-Nord-Est".
Poi, con voce appena più bassa: "Ma è una via di sesto continuo, con tiri
di sesto superiore, e quei seracchi verso la fine sono quasi invalicabili. Se
poi sopraggiunge un cambiamento di tempo potete anche farvi il segno della croce:
non ci sono vie di fuga. Glielo dica, Claudio". A questo richiamo un uomo
di mezz'età trascurato nel vestire, che siede tutto solo a un tavolino in un cantuccio
della sala, fissando un bicchiere che riempie di frequente attingendo da una bottiglia
ormai semivuota, si alza e con passo incerto, tentando ripetutamente di assestarsi
la cinghia dei calzoni, si accosta al tavolo. Sul viso rubizzo una barba di qualche
giorno, da cui emana un forte odore di alcool, lo stesso odore di cui è impregnata
la vecchia camicia di flanella, logora al collo e ai polsi. "Glielo dica
lei, che c'è stato tante volte, a questi giovani, com'è duro". Resosi
immediatamente conto dell'argomento della conversazione, l'uomo ha un lampo negli
occhi, l'espressione del suo viso da atona e impacciata si fa attenta e penetrante.
Si siede al tavolo e comincia ad indicare le zone crepacciate sul ghiacciaio sottostante
l'attacco del pilastro, i punti battuti da scariche di sassi e di ghiaccio...
è allora che uno dei due giovani, con un sorriso beffardo, lo interrompe: ! "Senta,
Genepì", noi non abbiamo da lasciarci la pelle, quindi si tenga i suoi consigli.
Piuttosto torni alla sua bottiglia". Così dicendo si alza, gli afferra la
destra, vi sbatte una banconota da diecimila lire e vi chiude sopra a forza le
sue dita. L'uomo si alza, con lo sguardo basso, passa dal banco del bar, prende
un'altra bottiglia e torna al suo tavolo. "Lo sa che l'uomo cui ha mancato
così villanamente di rispetto è una delle più grandi guide della valle?"
"E' solo un alcoolizzato che ha lasciato morire un cliente per incapacità,
e qui lo tengono per carità, e si paga le sue bevute con l'elemosina dei clienti".
Detto questo il giovane, con aria sprezzante, pianta il suo interlocutore e torna
a sedersi di fronte al suo amico, con cui riprende il discorso interrotto.
Genepì, tornato al suo tavolo con la nuova bottiglia, guarda fisso davanti a se,
e ripercorre le giornate che ha passato sul Gran Pilastro NNE, ma è un ricordo
che viene subito sopraffatto da quella scivolata del cliente che lo colse di sorpresa
proprio all'uscita, quando le difficoltà erano finite. Il bicchiere viene vuotato
e immediatamente riempito. Lo strappo che lo portò a scivolare, per pura fatalità,
al di là di una cresta tagliente gli martella la memoria, e tornano a farsi sentire
tutte le insinuazioni dei colleghi. La bottiglia si va rapidamente vuotando. La
corda tranciata in modo abbastanza netto vicino a lui, ma pur evidentemente non
tagliata, non aveva consentito di portarlo in tribunale, ma gli aveva fatto mille
volte rimpiangere di non essere scivolato anche lui al di là della lama rocciosa,
seguendo il suo cliente nel volo. Da allora la sua carriera era finita, e gli
anni trascorsi erano solo una sequenza di bottiglie, che i clienti del rifugio
con insolente benevolenza insistevano per offrirgli. Si rendeva conto di essere
essenzialmente una macchietta, tollerato dal gestore in cambio di qualche servizio
e oggetto di invadente curiosità da parte dei frequentatori del rifugio. A questo
ruolo impostogli dalle circostanze non sapeva, né ormai voleva più, sottrarsi,
e sfogava tutta la sua angoscia nell'ingozzarsi di alcool e di cibo, e quanto
più di frequente capitava che con lo stesso atteggiamento di falsa benevolenza
qualcuno gli offrisse una bottiglia, tanto più rabbiosamente lo si vedeva por
mano al bicchiere. Tornavano a impadronirsi di lui le angosce che avevano tiranneggiato
la sua infanzia, prime fra tutte quelle che lo afferravano in presenza del buio
e del vuoto, che egli aveva direttamente affrontato e sconfitto (definitivamente,
gli era sembrato) con le sue vittorie su pareti tremende, bombardate da scariche
di massi e di blocchi di ghiaccio, che agli altri incutevano paura al solo guardarle.
E tutta la sua vita era stata un affermarsi dell'uomo intrepido sul ragazzo pieno
di complessi e di timori innominabili, impaurito, prima che di fronte al pericolo,
di fronte alla vita. Ed ora questa morsa cui faticosamente si era sottratto era
tornata a serrarlo, e non c'era notte in cui il malessere fisico determinato dalle
bevute sfrenate, che gli provocavano testa pesante e bocca amara, non si accompagnasse
al ritorno di quelle angosce che avevano tolto la quiete ai suoi sonni adolescenziali.
Unica consolazione il dare sfogo alla propria avidità di cibo e di alcool, finché
lo stomaco era in grado di contenere, e ancora di più. *
* * A fine agosto alle alte quote il tempo è instabile:
ormai da diverse ore imperversa una tremenda bufera di neve. I clienti se
ne stanno nella sala attendendo la cena, Genepì è al suo posto, alticcio e assente
come al solito. Il gestore, preoccupato per i due giovani che molto prima dell'alba
sono partiti per il Gran Pilastro e non hanno fatto ritorno, ha allertato il soccorso
alpino di Courmayeur: gli è stato risposto che, finché le condizioni restano proibitive,
gli elicotteri non possono decollare. I clienti si informano continuamente
sui due giovani, discutono tra loro, chiedono che cosa ci sarà per cena, deprecano
la giovanile sventatezza di certi irresponsabili e sorseggiano caffè corretto.
E' a questo punto che entra nella sala, trascinandosi a fatica, uno dei due giovani,
e in modo convulso grida al gestore che il compagno è in parete gravemente ferito,
che non supererà la notte, che chiami gli elicotteri di soccorso. Si sente rispondere
che gli elicotteri, già allertati, non decolleranno per la bufera, che una qualsiasi
forma di soccorso in queste condizioni è praticamente impossibile, figuriamoci
poi sul Gran Pilastro: c'era un uomo solo che sempre e comunque si arrischiava
a portare aiuto, e spesso strappava alla montagna la preda, ma eccolo lì, com'è
ridotto. Genepì avverte nel suo torpore di essere ancora una volta al centro dell'attenzione,
torna con la mente a brani della conversazione precedente che ha udito senza ascoltare
ma in cui, ora ne è certo, entrava in qualche modo il Gran Pilastro, intuisce
che sta accadendo qualcosa di grave. Si alza allora e si trascina faticosamente
fuori della sala. Torna dieci minuti dopo, col volto e la camicia bagnati,
coi capelli che grondano acqua, ancora un po' stordito, ma con uno sguardo determinato
che nessuno più gli conosce. Si avvicina al giovane che di fronte alle spiegazioni
del gestore continua a insistere, a gridare, a inveire, e chiede informazioni
dettagliate. Tutto è avvenuto dopo l'intaglio a metà del pilastro: il compagno
è scivolato da primo di cordata verso metò mattinata, sulla parete resa viscida
dalla neve che aveva cominciato a cadere. Bilancio: un volo di venti metri e una
gamba rotta con frattura esposta. Non è restato altro da fare che avvolgerlo in
un telo termico, chiuderlo nel sacco da bivacco e assicurarlo con due chiodi in
un incavo un po' riparato della roccia. Poi la serie infinita di doppie, quindici
di quaranta metri, nel gelo della tormenta, coi vortici di vento che ti afferrano,
nell'aria plumbea, le sferzate che ti tormentano il viso. Ancora la ritirata quasi
a tentoni tra i seracchi e le immani crepacciate del ghiacciaio sottostante, la
strada cento volte tentata e ritentata, la paura di non farcela, le luci del rifugio
intraviste, quasi indovinate, a poche decine di metri, quando ormai stai per lasciar
perdere tutto. E c'è quel giovane malconcio che di certo non vedrà l'arrivo dei
soccorsi, che forse già ora è assiderato. Dove sia l'intaglio Genepì lo sa
bene, il pilastro era la sua specialità. Era là che il cliente quella malaugurata
giornata aveva compiuto un vero exploit: venti metri di sesto superiore senza
mai mettere in tensione la corda, né reggersi ai chiodi di via; e questo aveva
anche segnato il loro destino: Genepì si era convinto di aver a che fare con uno
di quegli alpinisti che negli anni Venti erano stati definiti senza guida, uno
che cercava solo un compagno di cordata e che aveva colto l'occasione per fare
la conoscenza del capo guida di Courmayeur, per avere l'onore di legarsi con lui,
ma da pari a pari. E questa consapevolezza della grande preparazione del cliente
gli aveva fatto abbassare la guardia: di qui il procedere di conserva una volta
giunti alla sommità del pilastro, su quel pietrame che copre la placca granitica,
poi l'urlo, lo strattone, il secondo urlo, immenso, infinito... Lo risentiva la
mattina quando si svegliava con la testa appesantita dall'alcool, e lo accompagna
anche ora nel sottoscala in cui dorme, mentre fruga freneticamente in una cassa,
ne estrae arnesi coperti di polvere, due corde che ormai hanno fatto il loro tempo.
Sistema tutto nel sacco, si intabarra nel vecchio giaccone, attraversa la sala
sotto gli occhi increduli del gestore e dei clienti, che, dopo aver sentito per
un attimo il sapore emozionante della morte incombere dalla montagna, son tornati
ad apprezzare gli gnocchi al ragù e la fonduta. Genepì è già fuori, nel gelo
della sera; "Genepì, Genepì", sente chiamare dalla porta del rifugio,
ma la voce del gestore è più lontana che se venisse dall'altro mondo.
* * * Ed eccolo ancora nel suo regno: si muove in mezzo
all'oscurità che avanza, tra le folate di vento che gli riempiono gli occhi di
neve, con la sicurezza che ha sempre avuto: né il ghiacciaio né la montagna hanno
segreti per lui, ne riconosce ogni anfratto anche al buio. E nella notte, mentre
avanza solo, ripete a se stesso, col tono più convincente di cui è capace: "Claudio
Pellissier, capo guida di Courmayeur". Quanto maggiore è la convinzione che
egli pone in queste parole, tanto più insistente si fa l'ululato del vento, che
ripete ossessivamente: "Genepì, Genepì...". E accanto ai ricordi
di anni di vita affogati nel bicchiere, circondati di curiosità ottusa, trascorsi
a tavola a ingozzarsi finché lo stomaco non fa male, costellati di episodi come
quello della sera precedente, si fanno strada recando nuovo orrore le fobie dell'infanzia,
che credevi rimosse. Dalla notte si fanno contro Genepì presenze ignote, contro
le quali la fredda determinazione con cui affronti la montagna è inutile: le loro
armi sono il buio, il freddo, il vuoto. E le sagome rocciose che si stagliano
sul biancore confuso del ghiacciaio sono ora le ombre che terrorizzavano le sue
notti insonni di bimbo: profili di maghi, di streghe, di maligni curiosi che spiavano
la sua inquietudine. L'ululato del vento è lo stesso che lo investiva mentre varcava
i ponticelli di montagna, e si sentiva attratto e terrorizzato dai gorghi del
torrente là in fondo. E mentre su fragili cornici inconsistenti costeggia
l'orrore dei crepacci, di cui nella notte non vedi il fondo, ma solo una grande
oscurità al di sotto della quale sprofonda il baratro, scopre di essere tornato
il bambino che non si avventurava nemmeno sul balcone di casa, che non saliva
come gli amici sull'altalena. Le vie di sesto superiore vinte in solitaria, i
bivacchi in parete, il superamento di ghiacciai pensili che si protendevano nel
vuoto in maniera improbabile non esistono più: esiste solo un piccolo bambino
di cinquant'anni che trema di freddo e di paura. E il vento aumenta di forza:
"Genepì, Genepì...". Le lacrime rigano il viso già madido di neve, e
quando colano in bocca si riconoscono dal sapore di sale. Il passo sempre più
incerto (son passate delle ore, quante è difficile dirlo) lo porta alla base del
pilastro, scuro e gelido. Una breve esitazione ed è in parete. Il contatto
con la roccia gli porta una nuova lucidità: colui che ora arrampica con vigore
non è più Genepì, né tantomeno il bambino pauroso. I tratti di sesto superiore
richiederebbero almeno un embrione di autoassicurazione, ma non c'è tempo, forse
quel ragazzo sta morendo. E così il Gran Pilastro cede ancora una volta al suo
assalto, e non c'è difesa frapposta, né muro strapiombante, né placca liscia che
valga a rallentare la sua progressione. La fatica si fa sentire improvvisa, la
testa torna pesante, ma sono ormai le cinque, l'intaglio è vicino, e le tenebre
finalmente si diraderanno. Un opaco chiarore sospeso nell'aria intrisa di fiocchi
di neve comincia a prevalere sulla notte e sulle sue ombre, e gli permette di
distinguere una massa rossa incastrata in un anfratto. Un energico scossone: "Forza,
ragazzo, è tutto finito". "Che succede?" "Sono Genepì".
Il vuoto e la tormenta li avvolgono e restano quindici doppie nel vento gelido,
con un ferito legato alla schiena. Le forze sono sempre lì lì per venir meno,
ma l'urlo del vento non è più un ritornello di derisione, bensì l'invito ad accettare
una sfida impossibile che bisogna vincere ad ogni costo. E il giovane superbo
che l'altra sera l'ha insultato è ora un povero essere indifeso che ha bisogno
di lui, e per lui Genepì combatte contro la montagna, contro la tormenta, contro
le larve del passato. Ogni movimento brusco lacera la povera carne martoriata,
ma le discontinuità della parete, le difficoltà delle calate, le raffiche di vento
non consentono di fare altrimenti. Ora dopo ora i due si abbassano verso la
salvezza, appesi a spuntoni resi viscidi dalla neve, in certi punti sospesi nel
vuoto senza poter toccare la parete, e il peso in certi momenti si fa intollerabile.
Genepì si impone la ripetizione automatica di un certo numero di movimenti, sempre
quelli, come dovesse continuare per l'eternità: un, due, tre, quattro, cinque...
e ancora uno, due, tre, quattro, cinque... E pian pianino si accorge che la lotta
per la vita del compagno più che per la sua sta assorbendo tutte le sue energie
mentali, e che non c'è più spazio per l'angoscia. E' il primo pomeriggio quando
sono sul ghiacciaio: un ricovero d'emergenza per il ferito in un piccolo crepaccio,
una galoppata fino al rifugio tagliando nel mezzo la zona più crepacciata, il
ritorno coi soccorsi prima ancora che scenda l'oscurità, mentre già la forza della
bufera accenna a decrescere, infine la salvezza. * * * Un
altro anno è trascorso, uguale è la sala del rifugio, ugualmente rumoroso il chiacchiericcio
dei clienti seduti a tavola, allo stesso posto in fondo alla sala sta seduta l'anziana
guida, e sorseggia un bicchierino. "Signor Pellissier, vorrei che si degnasse
di accompagnarmi sul Gran Pilastro". Gli sta in piedi al fianco, in atteggiamento
di profondo rispetto, un giovane che appoggia il suo peso in maniera appena percettibile
sulla gamba sinistra. "Oh, signore, mi chiami pure Genepì. Sa, son cose per
voi giovani, io non sono più all'altezza. Ma si accomodi, permetta che le offra
un bicchiere". |