Girando nei Borghi Italiani

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CAI Club Aplino Italiano
Sezione del Valdarno inferiore

La Montagna Nera
di Francesco Mantelli

Un ultimo sforzo aveva portato il piccolo gruppo ormai fuori dal ripido canale di neve dura. Pochi passi per arrivare dai pendii del versante settentrionale alle luci dell'anticima est. Lassù l'insieme delle montagne rivelò un volto inatteso: non più quell'insieme confuso dalla foschia che si era mostrato nei giorni precedenti, ma nemmeno le forme classiche dei noti gruppi montuosi. Montagne strane queste. Sagome scure, simili a scogli minacciosi che emergevano dal bianco mosso e chiazzato del vasto innevamento.


...Montagne strane queste. Sagome scure simili a scogli minacciosi 
che  emergevano dal bianco mosso e chiazzato del vasto innevamento

Nessuno pensò in quel momento che quelle vette di aspetto inconsueto, quasi sinistro, non erano correlate a nessuna particolare minaccia ed erano dovute solo alla struttura degli gneiss e alla loro brunitura dovuta a fenomeni di ossidazione.
Nessuno si soffermò a considerare gli aspetti geolitologici del rilievo e nessuna divagazione servì per attenuare quel momento di incertezza che pervase un po' tutti; perfino Livio, che pur valutando non difficile né pericoloso il seguito dell'ascensione, sentì per un attimo il peso della responsabilità di avere condotto gli altri in un luogo così severo.
Per tempi altrettanto brevi Livio rivisse una sensazione che altre volte si era affacciata in analoghe situazioni, quando sopravveniva quel leggero senso di smarrimento al momento in cui egli si accorgeva di avere, forse, osato troppo, di essersi spinto troppo in avanti per le proprie possibilità e conoscenze. Un tempo quel particolare momento sarebbe stato avvertito come una sensazione pesante che andava a localizzarsi esattamente a livello dello stomaco, un malessere che ora non si trasformava più in nausea perché Livio aveva ormai imparato che bastava prendere una decisione e tornare subito a muoversi per mandare in polvere quel momento di incertezza.

Qualche giorno prima, quando Giulia, Livio, Anna e Alessandro avevano raggiunto il rifugio Valloni, non fecero probabilmente una buona impressione al gestore Pietro Devero. Essi avevano una buona attrezzatura, zaini giganteschi e ottime piccozze, ma non davano l'impressione di essere particolarmente esperti e quando qualcuno pronunciò la parola "Montagna Nera", il gestore senza troppo ritegno disegnò sul proprio volto una chiara espressione di dubbio sulle loro possibilità. Il giorno seguente non propose alcun impegno: i quattro salirono fino al Passo delle Lame: varie ore su rocce e nevai, così per guardasi attorno ed esplorare il territorio o semplicemente per soddisfare l'antica attrattiva di affacciarsi sulle terre di un'altra nazione. E in effetti sembrò davvero un altro paese quello che videro da lassù: dossi montuosi dolci e ondulati che niente avevano di quelle Alpi che percorrevano da giorni. Sembrava che proprio lassù le forze complesse dei processi orogenetici avessero esaurito il loro slancio: oltre non erano riusciti che a produrre misere pieghe, ora divenuti sistemi montuosi ricoperti dai boschi e incisi da basse valli. In cima a quel valico Giulia, Alessandro, Livio e Anna assorbirono il senso di quella mutazione e non ci fu banalità di intenti quando con i loro sguardi riuscirono ad arrivare al di là.


...il giorno seguente non propose alcun impegno: 
i quattro salirono fino al Passo delle Lame...

"Dovete risalire il canalino degli Italiani molto presto: le condizioni di neve sono ideali nel primo mattino, poi, per il rientro, con il sole più alto, non vi consiglio di scendere da quella via, meglio direttamente sul versante francese e poi tornare attraverso il Passo delle Lame". Così iniziò il primo approccio sulla Montagna Nera con Pietro Devero nella sua qualità di guida e di commensale. Forse la sua opinione nei confronti del gruppo si era in parte modificata e quindi valeva anche la pena spendere un po' di tempo in consigli e informazioni.
"Quante ore impiegheremo per la vetta? " si preoccupò di informarsi Alessandro.
"Cinque o sei, dipende dallo stato della neve e dal vostro allenamento. Ma per la vetta occorre scendere dall'anticima est lungo il versante sud e da lì riprendere un canale che vi porterà quasi in cima. Non vi sono difficoltà, ma occorre prestare attenzione al tipo di innevamento e allo stato delle rocce".

Alla vigilia di qualche avvenimento di una certa importanza, Livio riceveva sempre qualche messaggio nella notte: immagini confuse a volte, flash di preveggenza impressionante in altri casi. Varie volte, fra l' incredulità degli altri, Livio raccontava al mattino l'evoluzione degli eventi meteorologici futuri o altri particolari fenomeni che puntualmente si verificavano nelle ore o nei giorni successivi. A volte i sogni avrebbero atteso anni per verificarsi, ma poi con sorprendente precisione, le stesse circostanze e la stessa atmosfera si sarebbero presentati in quella che definiamo la realtà quotidiana.
Altre volte infine, Livio avrebbe tenuto per se il segreto di quei messaggi: il coinvolgimento degli amici e degli affetti gli era sembrato troppo elevato per diffondere notizie venute da quelle dimensioni sconosciute. Solo al momento del compimento degli avvenimenti previsti, avrebbe rivelato la natura del messaggio notturno, ormai al riparo da ogni possibile interferenza con il corso degli eventi, timoroso egli stesso di questo potere inconoscibile e assolutamente inutile, perché niente avrebbe potuto modificare ciò che forse era già avvenuto. Così nelle notti confuse al rifugio Valloni, in cui troppe cose delle propria vita gli sembravano incerte, un messaggio giunse preciso e inatteso: un'immagine di Giulia in ospedale, assieme ad altri particolari ben definiti.

La notte precedente alla salita della Montagna Nera fu solo una notte senza luna, durante la quale il vento sbatteva qualcosa fuori delle finestre. Una continua agitazione aveva pervaso Livio fino alle prime luci del mattino, quando alle 4,15 il gruppo si mise in movimento per la partenza.
Non ci fu entusiasmo quando i quattro lasciarono il rifugio; c'era una strana aria fuori: troppo caldo e troppe nebbie sui crinali. Solo la Montagna Nera, ben visibile e limpida fin sulla vetta, lontana e quasi inarrivabile, rimaneva a costituire una potente attrazione.
La salita fu senza storia fino ai nevai alti dove l'aria fu libera da ogni foschia. Luce e sole trasformarono gli umori: inevitabile il bisogno di salire, di accrescere quella spazialità fin sulla cima, di soddisfare ormai un richiamo che annullava ogni fatica, un bisogno ascensionale senza limiti che coinvolse tutti verso un vasto nevaio che si raddrizzava sempre più, fino a trasformarsi in un ripido canale su cui si lavorò di piccozza per uscire sull'anticima principale.
Dopo che il gruppo giunse su quel balcone, per poco tempo ci fu un silenzio di stanchezza e di timore: ognuno si limitava a rimirare quell'insieme austero di cime scure appena infiocchettate dalle prime nebbie.
"Possiamo scendere anche subito sul versante francese se non ce la sentiamo di andare fino in vetta" argomentò Livio, tanto per rompere l'incertezza di quel momento. Ma la risposta non ci fu, così che il gruppo ripartì poco dopo per portarsi alla base del canale sud-est: da lì poco più di cento metri li separavano dalla cima.


...Solo la Montagna Nera, ben visibile e limpida fin sulla vetta, lontana 
e quasi inarrivabile, rimaneva a costituire una potente attrazione...

La risalita fu faticosa; in alcuni punti la neve cedeva e occorse oltre mezz'ora per raggiungere un'esile sella alla sommità del canale dove già si indovinavano le sembianze di quella cuspide nera: pochi passi ora per svelare il mistero della sua attrattiva, le sue rocce senza tempo e senza forma simili a diaboliche creature in impaziente attesa.
Tracce di passaggi e rocce ripide portavano ancora verso l'alto, ormai oltre i 3000 metri, per mostrare qualche metro più sopra la croce di vetta. Erano le 11,35.
Come spesso accade l'entusiasmo si era forse stemperato negli ultimi metri, quando ormai la cima si era sentita prossima, ma qualche attimo particolare il gruppo lo visse attorno alle rocce di vetta. Da lassù la visione ripagava a sufficienza dubbi e fatiche. Un mare di esili nebbie da cui fuoriuscivano montagne senza nome si estendeva fino ai più lontani orizzonti; solo ad una debole brezza era concesso di percorrere quegli spazi e giungere fino lassù a mitigare il caldo di quell'estate.
Ognuno assaporò il momento, ognuno raccolse messaggi e ascoltò le parole della Montagna Nera. Quel dialogo fu breve: all'uomo non è concesso prolungare troppo i momenti e le sensazioni intense. Subito tornò il rapporto con l'immediato. Premeva capire l'itinerario di discesa verso la Francia, territorio sconosciuto su cui ora si cercavano dei riferimenti da lassù, dove tutto appariva ovvio e semplice. Poi il tempo mutò le sue misure ed iniziò a correre. Venne in fretta il momento di andarsene.

Qualche tempo prima, camminando, Livio ripensava al linguaggio della montagna, non sempre facilmente intelleggibile. Stava salendo un pendio per raggiungere una sommità di rocce scure, una vetta, e il motivo era solo la ricerca di un messaggio, di un momento particolare che non sarebbe venuto necessariamente da lassù. No, non era mai il raggiungimento di un obiettivo prestabilito il momento culmine di comunione con quelle terre. No, l'obiettivo era solo un pretesto, un'occasione per essere là, nella ricerca o nell'attesa di particolari situazioni in cui serviva disporsi o solo ascoltare. Situazioni o messaggi inattesi a volte, momenti di serenità interiore che potevano originarsi da particolari anche insignificanti; era bastato un giorno il sibilo del vento, un soffio leggero che percorreva le rocce nude e le prime nevi del monte Meris, per scatenare emozioni immediate e forti. Era bastato quel suono per scuotere in profondità, un leggero sibilo che evocava irrepetibili armonie che trasformava i luoghi, che mutava la limitatezza di quelle Alpi in qualcosa di più vasto, che portava quel luogo verso altri spazi e altre distanze.
Così la vetta fu lì per la durata di qualche secondo, in quel momento intenso in cui niente seppe riferire agli altri, non la cima raggiunta molto tempo dopo da cui superbi paesaggi erano sorti, ma più poveri di parole, più silenziosi.

Qualche momento prima della discesa, ai bordi del canalino sud-est, Livio diffuse i consueti inviti alla prudenza e qualche consiglio tecnico. Il caldo aveva reso instabile la neve inoltre, il pendio appariva più ripido, ora che si mostrava frontalmente.
Poi tutto accadde in un attimo. Quello che spesso è temuto, l'inaspettato che non dà avvertimenti, si compie improvvisamente. La trasmigrazione da una fase ad un'altra è immediata. Quasi incuriosisce fermarsi ad osservare questi repentini passaggi di stato in cui il mondo si capovolge.
A Giulia non tenne la piccozza lungo un piccolo traverso. Scivolò lentamente di lato, ma apparve naturale che si sarebbe arrestata sprofondando nella neve morbida. Livio stava scendendo per primo e voltandosi ebbe tutto il tempo di osservare la scena. Pensò che sarebbe stato semplice fermare Giulia in quella lenta scivolata, oppure non pensò niente quando si spostò per qualche metro verso il centro del canale e afferrò quel corpo in lenta discesa. Il tempo cessò di esistere là, nello stesso istante in cui non ci fu più alcuna possibilità né di capire, né di rendersi conto di cosa stava accadendo.
Anna e Alessandro videro gli amici aggrappati scivolare velocemente verso il basso. Non fecero altro che disegnare rapidamente nei propri occhi la sorpresa di quell'evento e in quel modo seguire quella discesa rovinosa fino al punto in cui i due corpi dopo la lunga scivolata nel centro del canale, urtarono contro il bordo sinistro, lo scavalcarono e scomparvero dalla loro vista.

Giulia pensò che fosse la fine: chiuse gli occhi e si abbandonò. Livio vide il margine del canale avvicinarsi velocissimo, poi intuì di esserne sbalzato fuori assieme ad una nube di nevischio. Sentì poi un colpo violento: l'urto della propria fronte sulle rocce: ma in quel momento non gli sembrò di essere più lui: non provò alcun dolore, già si sentiva estraneo a quel corpo che cadeva e nient'altro avvertì in quell'istante di contatto violento con la pietra.
E' così che si lascia la vita in montagna. Quasi sempre senza angoscia e senza dolore: in infinitesimi di tempo si scivola nel silenzio.


La Montagna Nera (Monte Gelas, m. 3143, Alpi marittime). 
Il canalino di circa 100 metri interamente percorso 
durante la caduta dalla cima della montagna.

Sulle montagne non accade mai nulla.
Le loro rocce non sentono l'agitarsi dei viventi, presenza troppo circoscritta nei tempi eterni delle ere in cui altri fenomeni premono alle radici.
Le grandi spinte del pianeta, loro sì che esistono! Intente a costruire intere dorsali, a spaccare e spostare pile di strati e affacciarli sopra l'antico mare o al piede di colline. Le grandi spinte che frantumano dal fondo la quieta copertura della crosta, che la perforano con pressioni micidiali per farvi sgorgare i liquidi inorganici che vanno a rapprendersi poco sopra, sull'orlo delle grandi cicatrici vulcaniche. E altre fratture, piccole e grandi, portano a scompaginare altre parti della litosfera, apparentemente ferma e in silenzio, ma con le profondità percorse da tremiti e dall'agitarsi dei fluidi mineralizzanti in risalita, venuti a velare di cristalli dorati o di grigi metalli i piccoli anfratti del sottosuolo.
Le rocce non hanno respiro, demolite incessantemente, costrette a trasformarsi in sabbie e argille per essere affogate nei torrenti e nel mare e tornare di nuovo in attesa di altri eventi, che avranno tempi lunghissimi, che avverranno. Le rocce, che non avrebbero così mai avuto né tempo né voglia per conoscere il passaggio dell'uomo o valutarne la sua scomparsa, quel giorno non videro niente.
Ma nell'altra dimensione, forse tutto non era finito. Livio si risvegliò da un breve sonno senza sogni e raggiunse Giulia, cinquanta metri più in basso riversa sulla neve.
Forse non era accaduto niente anche se il sangue macchiava lo zaino, le mani, la neve e passava attraverso alle prime fasciature. Alessandro e Anna sarebbero rimaste a lungo lontane figure, incerti nella discesa nelle nebbie che improvvise venivano ad addensarsi. Ma non ci fu paura od ansia nei momenti successivi: non ce ne fu il tempo, la mente già lavorava in altra direzione: scendere, allontanarsi da quei tremila metri quanto prima. Così iniziò l'esodo, quando il gruppo si riunì sulla neve in disordine, quando Giulia iniziò a fatica a camminare, trascinandosi su una sola gamba.
Il paesaggio scorto dalla cima e le sue nitide distanze non esistevano più. Il mondo capovolto era fatto di smarrimento, neve e nebbia: solo vecchie tracce indicavano che non si era sospesi nel cielo e un'indicazione doveva in qualche modo esserci.
Per qualche momento le nebbie si diradarono: il gruppo era molto in alto, sotto di loro non c'erano che valloni e dirupi apparentemente impercorribili. Di fronte a quella visione, in un momento di profonda stanchezza, Livio non provò alcun desiderio di fuga, addirittura fu colto dal fascino di quelli spazi e pensò che forse è così che ci sente in certi momenti, quando ci troviamo circondati da una pace quasi assoluta e da una sensibilità esaltata sulle cose che ci circondano, da una capacità di percezione irrepetibile prima del lento abbandonarsi.
Quando Anna lo scosse, le nebbie erano riprecipitate su di loro e non ci fu che riprendere la ricerca sui nevai e per i labirinti di rocce. Dubbiose tracce di sentiero si perdevano con facilità sui nevai e vecchie impronte su neve si perdevano sui prossimi banchi rocciosi. Solo qualche prezioso cumulo di pietre dislocato qua e là costituiva un'indicazione verso il basso e fu seguendo quelli che il gruppo uscì finalmente dai nevai superiori per incontrare prima una traccia, poi un sentiero vero e proprio.

La gita in montagna si concluse poco dopo, quando giunse l'elicottero: i soccorsi furono di un'efficienza sorprendente. Dopo un po' di ospedale a Nizza, Giulia avrebbe portato il gesso per qualche mese, Livio i segni della montagna sulla fronte per qualche anno a venire.


La gita in montagna si concluse poco dopo, quando giunse
 l'elicottero: i soccorsi furono di un'efficienza sorprendente.

Domandarsi se l'accaduto fosse legato solo alla casualità che guida il susseguirsi degli eventi o se invece rispondesse a una logica, a un disegno più generale per noi assolutamente incomprensibile, fu doveroso da parte di qualcuno. Domande inutili, se alla fine l'impressione sarebbe rimasta quella di sentirsi dispersi nella breve finitezza del pianeta, simili a pulviscolo trasportato qua e là dai moti capricciosi e mutevoli dell'aria.
In effetti, troppi sono i momenti che ci inducono a pensare che la vita di ognuno di noi non è legata a leggi fisse e immutabili come quelle che regolano i processi della natura. Per noi il disegno deterministico che vorremmo intravedere oltre l'opacità dei nostri orizzonti risulta troppe volte spezzato da bruschi ed inattesi ripensamenti. Allo stesso tempo nessuno dovrebbe negare un processo di cui siamo parte e che non siamo in grado di comprendere nella sua interezza e dopo ogni caduta non c'è che da riprendere il cammino che ci siamo dati, per osservare che le montagne sono ancora lì, per sentire che la roccia mostra ancora l'antica saldezza e che ti invita a tornare.



Ogni riferimento a persone e fatti è puramente voluto. L'episodio è accaduto nel giugno 1988 sul M. Gelas (Alpi Marittime).




 

 

 
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Autore Fabio Montagnani
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Ultimo aggiornamento il 1 Giugno 2017
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dal 26 ottobre 2000