Alcune
parole straniere sono oggi entrate nell'uso quotidiano e vengono pronunciate con
naturalezza, in modo particolare dal mondo giovanile, il cui livello culturale
non è certo paragonabile a quello della generazione alla quale apparteniamo, cioè
di coloro che veleggiano verso la settantina. Tali definizioni, grazie ai mass-media
e alla televisione in particolare, sono diventate comprensibili anche a chi è
meno giovane e non ha soprattutto dimestichezza con le lingue straniere. Il
regime, nei suoi ultimi sprazzi prima della disfatta, aveva rigorosamente vietato
l'uso di parole straniere. La parola week-end non era conosciuta. Solo alcuni
che ascoltavano, ovviamente clandestinamente, ma con continuità radio Londra avevano
afferrato che con tale termine si indicava il fine settimana. A pronunciare
la parola, pure essa inglese, water-closet c'era il rischio di essere accusati
di connivenza col nemico. Quella parola, sul cui uso siamo tutti d'accordo - e
non potrebbe essere diversamente - era definita con altri termini coloriti: licite,
ritirata, cesso, gabinetto, latrina. Il classico liquore originario della
Francia, il cognac, era stato ribattezzato brandy o arzente (c'era chi, non ricordandoselo,
lo chiamava zeppone) cosicchè la mattina, coloro che erano abituati ad andare
dal sor Arturo o da Zita a berne un bicchierino, non potendo più chiedere il "cognacchino"
indicavano con il dito indice di una mano la fatidica bottiglia, facendo con l'altra
il gesto di riempirlo. Anche lo "champagne" venne italianizzato con il nome
di spumante. E c'è da dire che quello prodotto nelle colline dell'astigiano
non ha nulla da invidiare a quello d'oltralpe. Anzi, con il passar del tempo,
gli italiani, che erano degli scolari, sono diventati maestri. Il bidet era
pressoché un oggetto misterioso, e chi lo aveva appena intravisto in qualche casa
signorile, lo chiamava sciacquapassere. Se dunque le parole di origine inglese
e francese erano rigorosamente vietate, figuriamoci quelle russe. Il morbido
e peloso copricapo chiamato colbak, era definito con un altro termine, più popolare
e ridanciano. Così la mattina di un rigido giorno invernale Silvano, il figlio
mezzano di Emidio Larini detto Padella, su incarico del padre, si recò alla bottega
del Marcacci, che oltre ai generi alimentari ed alla mescita del vino ed al materiale
scolastico (libri, quaderni, inchiostro, penne etc.) vantava un attrezzato reparto
merceologico curato da Walmy, e rivolendosi a Flora, di turno dietro al bancone
della vendita, disse: "ha detto il mì babbo se mi date la topa: poi sabato prossimo,
quando riscuote dalla cooperativa, passa lui a pagarvela." La risata di Flora,
spontanea e fragorosa, si accompagnò alla risposta: "ignorante te e il tu' babbo;
ma proprio a Montepescali dovevi capitare?" B.C. Cronaca
di Braccagni
Battuto il record delle "padelle" L'ultima battuta al cinghiale nella
riserva dei Conti Salviati Abbiamo sempre pensato che Braccagni fosse
un paese di cacciatori abili ed esperti, ma a guardare questa cronaca che ci ha
inviato il nostro collaboratore di Scarlino Giancarlo Grassi, tratta dal giornale
"Il Tirreno" del 1965 non si direbbe! 50 cacciatori 30 cani e... polveri
bagnate, in un pomeriggio di sole nelle macchie della Carpineta per l'ultima stagionale
battuta al cinghiale nella "riserva" dei Conti Guicciardini Corsi Salviati. Alla
cacciata, per vecchia consuetudine mai trascurata a memoria d'uomo, ed è questo
un rimarchevole senso di signorile considerazione, oltre ad alcuni ospiti dei
proprietari, partecipavano anche i più esperti ed agguerriti "schioppi" di Braccagni
ove, come è noto, fa capo la estesa tenuta degli Acquisti. Ed è una battuta,
quella che, per i cacciatori locali, ha un po' il senso di uno scrutinio finale,
quasi di un ultimo esame di rapidità nel tiro e di freddezza alla "posta" dopo
il lungo allenamento delle cacce alla lepre e al fagiano prima, e al merlo e al
tordo, poi. Ma, si sa, non sempre si ha la fortuna agli esami: ci si prepara bene,
si ripassa la lezione come meglio non si potrebbe, poi... o la va o la spacca.
E per i braccagnini, domenica pomeriggio, è spaccata. Tutti bardati e lustri,
armatissimi, con cartucce d'ogni tipo e marca, berrettino sportivo a protezione
degli occhi, i migliori fucili di Braccagni erano scesi in lizza ansiosi di misurarsi
con gli irsuti ed intrepidi ungulati. Comincia così la caccia con un festoso
avvio della canizza, con le prime schioppettate e con le prime delle numerosissime
padelle. Enormi, gigantesche padelle e tutte in fila. Cominciava FEBO col mancare
un bel cinghialotto d'una cinquantina di chili, continuava BRENCIO con una grosa
maschia, poi una cilecca, ancora uno sfortunato tiro del "Sor PIETRO" ed infine
l'episodio culminante, il "big" della padella. Una grossa femmina e quattro
cinghialotti, il naso sulla coda dell'altro, passavano circospetti e con cautela
davanti l'ultima posta, certi ormai d'averla scampata, felici di poter ancora
battere il muschio e sgrufolarsi nel fango nei caldi pomeriggi d'estate., almeno
fino al prossimo anno. E le loro speranze non andavano deluse. C'era il DRINGOLI
all'ultima posta; il fucile automatico in pugno, euforico, sicuro di sé. Era bello
il colpo d'occhio; bello e raro. Pochi cacciatori era capitato di poter tirare
a cinque cinghiali in fila, quasi fermi, che sembravano camminare in punta di
piedi. Cinque colpi in cinque secondi a cinque cinghiali... e cinque colossali
padelle. L'onore delle ermi, per fortuna era stato affidato a mani gentili,
quelle della signora Anna Mazzini di Prato, che l'avevano egregiamente difeso
fulminando con un solo colpo un vecchio maschio partito velocissimo dal suo "bauge".
Erano poi tre altri cinghiali a subire l'ira dei cacciatori scatenatasi alla ricerca
di una giusta vendetta, finchè il sole calava di nuovo al di là di Macchia Scandona.
Antonio
Tosi
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